AICC Lodi

Giornata mondiale della Poesia

W. Szymborska, Ad alcuni piace la poesia

Al alcuni – 

cioè non a tutti.

E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.

Senza contare le scuole, dov’è un obbligo,

e i poeti stessi,

ce ne saranno forse due su mille.

 

Piace –

ma piace anche la pasta in brodo,

piacciono i complimenti e il colore azzurro,

piace una vecchia sciarpa,

piace averla vinta,

piace accarezzare un cane.

 

La poesia –

ma cos’è mai la poesia?

Più d’una risposta incerta

è stata già data in proposito.

Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo

come all’àncora d’un corrimano.

W. Szymborska, Scrivere un curriculum

Cos’è necessario?

E’ necessario scrivere una domanda,

e alla domanda allegare il curriculum.

 

A prescindere da quanto si è vissuto

Il curriculum dovrebbe essere breve.

 

E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti.

Cambiare paesaggi in indirizzi

E ricordi incerti in date fisse.

 

Di tutti gli amori basta quello coniugale,

e dei bambini solo quelli nati.

 

Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.

I viaggi solo se all’estero.

L’appartenenza a un che, ma senza un perché.

Onorificenze senza motivazione.

 

Scrivi come se non parlassi mai con te stesso

E ti evitassi.

 

Sorvola su, cani gatti e uccelli,

cianfrusaglie del passato, amici e sogni.

 

Meglio il prezzo che il valore

E il titolo che il contenuto.

Meglio il numero di scarpa, che non dove va

colui per cui ti scambiano.

 

Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto.

E’ la sua forma che conta, non ciò che sente.

Cosa si sente?

Il fragore delle macchine che triturano la carta.

Alceo, fr. 45

Ebro, il più bello dei fiumi, che presso

la città di Ainos sfoci nel mare purpureo,

scorrendo attraverso la terra di Tracia

dai bei cavalli;

molte fanciulle vengono da te

e con mani leggere sulle tenere cosce

spalmano la tua acqua divina,

come un unguento.

E. Montale, Dora Markus

I

Fu dove il ponte di legno

mette a porto Corsini sul mare alto

e rari uomini, quasi immoti, affondano

o salpano le reti. Con un segno

della mano additavi all’altra sponda

invisibile la tua patria vera.

Poi seguimmo il canale, fino alla darsena

della città, lucida di fuliggine,

nella bassura dove s’affondava

una primavera inerte,

senza memoria.

 

E qui dove un’antica vita

si screzia in una dolce

ansietà d’Oriente,

le tue parole iridavano come le scaglie

della triglia moribonda.

 

La tua irrequietudine mi fa pensare

agli uccelli di passo che urtano ai fari

nelle sere tempestose:

è una tempesta anche la tua dolcezza,

turbina e non appare,

e i suoi riposi sono anche più rari.

Non so come stremata tu resisti

in questo lago

d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse

ti salva un amuleto che tu tieni

vicino alla matita delle labbra,

al piumino, alla lima: un topo bianco,

d’avorio; e così esisti!

 

II

 

Ormai nella tua Carinzia

di mirti fioriti e di stagni,

china sul bordo sorvegli

la carpa che timida abbocca

o segui sui tigli, tra gl’irti

pinnacoli le accensioni

del vespro e nell’acque un avvampo

di tende da scali e pensioni.

 

La sera che si protende

sull’umida conca non porta

col palpito dei motori

che gemiti d’oche e un interno

di nivee maioliche dice

allo specchio annerito che ti vide

diversa una storia di errori

imperturbati e la incide

dove la spugna non giunge.

 

La tua leggenda, Dora!

Ma è scritta già in quegli sguardi

di uomini che hanno fedine

altere e deboli in grandi

ritratti d’oro e ritorna

ad ogni accordo che esprime

l’armonica guasta nell’ora

che abbuia, sempre più tardi.

 

È scritta là. Il sempreverde

alloro per la cucina

resiste, la voce non muta,

Ravenna è lontana, distilla

veleno una fede feroce.

Che vuole da te? Non si cede

voce, leggenda o destino…

Ma è tardi, sempre più tardi.

V. Majakovskij, Ma voi potreste?

Imbrattai di colpo la carta dei giorni triti

spruzzandovi colore da un bicchiere;

su un piatto di gelatina mostrai

gli zigomi sghembi dell’oceano.

Sulla squama d’un pesce di latta

lessi gli inviti di nuove labbra.

Ma voi

potreste

suonare un notturno

su un flauto di grondaie?

V. Majakovskij, Quadro esauriente della primavera

Fogliuzze.

Dopo le linee delle volpi.

Punti.

P. Neruda, Ode al pane

Pane,

con farina,

acqua

e fuoco

t’innalzi.

Spesso e lieve,

ripiegato e tondo,

riproduci

il ventre

della madre,

equinoziale

germinazione

terrestre.

Pane,

come sei facile

e profondo:

nel bianco vassoio

della panetteria

si allungano le tue fila

come utensili, piatti

o fogli,

e d’improvviso,

l’onda

della vita,

congiunzione del germe

e del fuoco,

cresci, cresci

d’improvviso

come i fianchi, la bocca, i seni,

le colline della terra,

vite,

sale il calore, t’inonda

la pienezza, il vento

della fecondità,

e allora resta fissato l’oro del tuo colore,

e quando rimasero pregni

i tuoi piccoli ventri,

la scura cicatrice

lasciò la sua bruciatura

in tutto il tuo dorato

sistema di emisferi.

Adesso,

intatto,

sei

azione d’uomo

miracolo reiterato,

volontà della vita.

Oh pane d’ogni bocca,

non

t’imploreremo,

noi uomini

non siamo mendicanti

di vaghe divinità

o angeli oscuri:

del mare e della terra

faremo pane,

semineremo frumento

sulla terra e sui pianeti,

il pane d’ogni bocca,

di ogni uomo,

in ogni giorno,

arriverà perché andammo

a seminarlo

ed a produrlo,

non per un uomo soltanto ma

per tutti,

il pane, il pane

per tutti i popoli

e con esso ciò che ha

forma e sapore di pane

distribuiremo:

la terra,

la bellezza,

l’amore,

tutto ciò

ha sapore di pane,

forma di pane,

germinazione di farina,

tutto

nacque per essere condiviso,

per essere donato,

per moltiplicarsi.

Per questo, pane,

se fuggi

dalla casa dell’uomo,

se ti nascondono,

ti negano,

se l’avaro

ti prostituisce,

se il ricco

fa bottino di te,

se il frumento

non cerca il solco e la terra,

pane,

non pregheremo,

pane,

non mendicheremo,

lotteremo per te con altri uomini

con tutti gli affamati,

per ogni fiume ed aria

andremo a cercarti,

tutta la terra divideremo

perché tu possa germinare,

e con noi

andrà avanti la terra:

l’acqua, il fuoco, l’uomo

lotteranno con noi.

Andremo avanti incoronati

di spighe,

conquistando

terra e pane per tutti,

e allora

anche la vita

avrà la forma del pane,

sarà semplice e profonda,

innumerevole e pura.

Tutti gli esseri

avranno diritto

alla terra e alla vita,

e così sarà il pane di domani

il pane d’ogni bocca

sacro,

consacrato,

perché sarà il prodotto

della più lunga e dura

lotta umana.

Non possiede ali

la vittoria terrestre:

ha pane sulle spalle,

e vola possente

liberando la terra

come una panetteria

portata in giro nel vento.

W. Shakespeare, Sonnet 29

When, in disgrace with fortune and men’s eyes,

I all alone beweep my outcast state,

And trouble deaf heaven with my bootless cries,

And look upon myself and curse my fate,

Wishing me like to one more rich in hope,

Featured like him, like him with friends possessed,

Desiring this man’s art and that man’s scope,

With what I most enjoy contented least;

Yet in these thoughts myself almost despising,

Haply I think on thee, and then my state,

Like to the lark at break of day arising

From sullen earth sings hymns at heaven’s gate;

For thy sweet love remembered such wealth brings

That then I scorn to change my state with kings.

Traduzione

Talora, venuto in odio alla Fortuna e agli uomini,

Io piango solitario nel mio triste abbandono,

E turbo il cielo sordo con futili lamenti,

E contemplo me stesso, e maledico la sorte.

Volendo essere simile a chi è più ricco di speranze,

Di più belle fattezze, di numerosi amici,

Invidiando l’ingegno di questi, il potere di un altro,

Per nulla soddisfatto di quanto mi è più caro;

Ma ecco che in tali pensieri quasi spregiando me stesso,

La tua immagine appare, e allora muto stato,

E quale allodola al romper del giorno s’alza

Dalla cupa terra, lancio inni alle soglie del cielo:

poiché il ricordo del dolce tuo amore porta seco

Tali ricchezze, che non vorrei scambiarle con un regno.

Catullo, Carmina, 72

Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
«Qui potis est?», inquis quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.

Traduzione

Dicevi, un tempo, che facevi l’amore solo con Catullo,

Lesbia, e che al posto mio non avresti voluto (volevi) abbracciare neppure Giove.

Ti amai, allora, non tanto come il volgo (ama) un’amante,

ma come un padre ama i figli e i generi.

Adesso so chi sei (ti ho conosciuta): perciò, anche se brucio di un fuoco ancor più violento ,

 tu sei per me molto più vile e spregevole.

“Com’è possibile?”, dici. Perché un’offesa del genere

costringe un amante ad amare di più, ma a voler bene di meno.